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Società di Psicoanalisi Interpersonale e GruppoAnalisi

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Presentazione

di Vincent A. Morrone

S.P.I.G.A. è l’acronimo di: Società di Psicoanalisi Interpersonale e GruppoAnalisi.
Il nome vuol sottolineare che in questa scuola viene prestata attenzione sia all’analisi diadica sia all’analisi di gruppo.

La Horney ci insegna che l’individuo ha una potenzialità di crescita latente dentro di sé. E noi riteniamo nostro compito primario, quello di attivare le potenzialità di crescita inerenti alle differenti personalità dei nostri allievi. Solo se l’allievo viene riconosciuto e rispettato nella sua individualità, nei suoi talenti naturali e nel suo stile personale di lavoro, senza pretendere che si conformi ad un modello preformato di analista, allora egli, qualunque sia la teoria di riferimento, sarà in grado a sua volta di riconoscere e rispettare l’individualità dei suoi pazienti e aiutarne la piena esplicazione.

I principi fondamentali, su cui si basa l’analisi di gruppo ad orientamento horneyano, risultano incastonati nella matrice della teoria dello sviluppo della personalità e della relazione terapeutica della Horney.
Si tratta di un approccio “olistico”, che contempla tutti gli aspetti della psiche. Niente può incidere su una parte dell’individuo, senza incidere in qualche modo sulle altre parti del suo essere. Così anche i vari aspetti della teoria della Horney, che spiegano lo sviluppo, la patogenesi, l’analisi diadica, l’analisi di gruppo ed il training analitico sono tutti collegati tra loro.

La teoria della Horney privilegia il com-prendere intuitivo sul conoscere scientifico. Del resto anche le scoperte scientifiche possono venir conquistate, solo quando il ricercatore è talmente motivato da sentire di voler, per così dire, scuotere i cancelli del reale per tentare di guardare oltre: ed allora questi miracolosamente cominciano ad aprirsi.

La Horney ritiene, che la comprensione del terapeuta sia l’elemento più importante in terapia, in quanto offre al paziente quello spazio di sicura accoglienza, che riduce l’angoscia di base e permette al soggetto di avvertire se stesso e le motivazioni più profonde a voler cambiare.

Il terapeuta deve avere la capacità di partecipare al vissuto del paziente mantenendo una giusta distanza terapeutica, che permetta al paziente di muoversi liberamente, secondo le modalità e i tempi che egli sente più consoni.

Il paziente sa nel suo profondo quale è il suo destino, la meta che egli può e vuole raggiungere: il terapeuta deve solo saperlo accompagnare, sostenere e dargli la sicurezza del riconoscimento del suo innato desiderio di essere se stesso.

In termini horneyani, bisogna ricreare una situazione primaria, una situazione di accoglienza e profonda accettazione, in cui il paziente (usiamo la parola nel suo significato etimologico di sofferente) non si sente più escluso da un mondo troppo differenziato, percepito come minaccioso e temibile, quindi non ha più bisogno di difendersi.
In tal modo l’angoscia primaria diviene non un ostacolo ma una possibilità di crescita e benessere.
Il terapeuta dunque deve saper assumere una funzione “materna”, cioè saper attendere e stare con il paziente e i suoi sentimenti, anche i più bui, comprenderli ed essere partecipe della sofferenza. Questo porta alla costruzione di una base sicura che permetterà al paziente di aver meno paura nell’affrontare le richieste inquietanti del suo inconscio. Il terapeuta (favorendo le libere associazioni e il contatto con il mondo onirico) lo aiuta a rimanere in quel preconscio, anticamera dell’inconscio, lo aiuta a rimanere in quella sofferenza, da cui ha sempre rifuggito e che, se accettata, può divenire promotrice di crescita. Se il terapeuta com-prende la sofferenza e si fa com-paziente, permette al paziente di essere se stesso e potrà così accompagnarlo nel viaggio. Se due individualità stabiliscono con fiducia reciproca un’alleanza (la cosiddetta alleanza terapeutica) si può affrontare il cammino di crescita e guarigione anche nei suoi tratti più oscuri e pericolosi.

Il lavoro del terapeuta è complementare a quello del paziente. È necessario un ascolto attento e senza pregiudizi, che lo renda sensibile a qualsiasi variazione, che possa indicare la validità del processo in atto e permetta di seguire quei segnali che la Horney chiamava i movimenti indicanti del paziente. La Horney diceva, che queste forme indicanti devono essere riconosciute, sostenute ed ampliate con interventi che non chiudano (con una interpretazione, una definizione, ecc.), ma che aprano la strada a forme sempre più mature (spirale simbolica).

Il compito precipuo del terapeuta è quello di mantenere una situazione di tensione creativa tra strutture consce e dinamiche inconsce, favorendo le libere associazioni e il contatto con il materiale onirico. L’atteggiamento del terapeuta di tranquilla partecipazione ed interesse alla complessità delle sue dinamiche consce ed inconsce sarà percepito con sollievo dal paziente: in tal modo, diminuirà la sua paura dei processi inconsci, considerati imprevedibili e distruttivi.

Questa attenzione al prelogico, non vuol dire sminuire il logico, ma vuol essere una più ampia possibilità di conoscenza del terreno, dell’ humus nel quale il logico si è formato e nel quale affonda le sue radici per trarne nutrimento vitale.
Una scuola deve porsi il problema di come formare psicoterapeuti, nei quali la conoscenza scientifica e la tecnica metodologica si sposino con una raffinata sensibilità. Tale sensibilità nasce dal profondo contatto nel proprio intimo con il proprio sé e proprio attraverso questo contatto con le proprie radici, si potrà entrare in contatto con quegli aspetti, che si ritrovano nel profondo di ogni uomo e che sono i più autentici dell’umanità.
Per tale ragione l’analisi personale è considerata parte integrante del training dell’ allievo.
Egli deve comprendere da quale sostrato, da quali profondità emerge in lui la motivazione ad essere terapeuta e con quale profonda motivazione, egli si predispone alla relazione di aiuto.
Questa consapevolezza di se stesso, della unicità della propria persona lo porterà anche a comprendere, che non può esistere un unico modello di riferimento della professione di terapeuta, e che non potrà contare su protocolli predefiniti da seguire.

Rifugiarsi nella certezza di modelli predefiniti lo porterebbe a rinunciare a quelle sue qualità più tipiche, che potrebbero essere la fonte della sua creatività e dunque di un suo stile unico di rapportarsi al paziente.
Non siamo mai sicuri della strada specifica da seguire, perché, per quanto abile, il terapeuta non ha mai incontrato quel particolare paziente nella sua unicità.

Il paziente, infatti, non può essere considerato semplicemente come una persona da “curare”, ma come un altro soggetto con potenzialità e responsabilità e quindi, come un elemento primario di un processo di co-terapia che vede insieme due soggetti.
L’allievo deve imparare ad apprezzare il potenziale del paziente. Ma come riuscirà a farlo, se non è in grado di essere in contatto innanzi tutto con il suo proprio potenziale innato, e mettere tra parentesi teorie e tecniche, pur apprese con studio attento e laborioso?

Se il paziente è unico nella sua personalità, come noi crediamo, allora non basterà la mera applicazione di una teoria per poterlo comprendere. La teoria dovrà essere filtrata dalla personalità unica del terapeuta, la cui comprensione ed empatia sono partners essenziali nel compito di comprendere il linguaggio ed il simbolismo di ogni particolare paziente.
Noi proponiamo dunque un modello aperto, mobile, fluido che offra all’allievo una maggiore opportunità di entrare in sintonia con il paziente, di comprenderlo nella sua totalità, e di sviluppare una raffinata sensibilità per le sottili sfumature che sono i segnavia di un cammino di crescita.

Se da una parte consideriamo importante che il giovane terapeuta ci presenti il suo lavoro, dall’altra è proprio il gruppo che stimola e facilita il processo di apprendimento. Per questo motivo ritengo importante favorire lo sviluppo della gruppalità sin dall’inizio della supervisione.
La diversità di provenienza quanto a culture ed a formazioni di base, le differenze individuali, gli specifici bisogni di ognuno, vengono messi in comune per diventare le risorse del gruppo nel suo insieme.
I giovani terapeuti devono poter vivere l’esperienza della supervisione con la consapevolezza di presentare il proprio lavoro, al supervisore ed ai colleghi, nella massima libertà e fiducia in se stessi e nel gruppo.
Solo così gli interventi e le inevitabili “critiche”, non saranno vissute in maniera persecutoria, come censure alle loro mancanze, ma come contributi aperti, finalizzati all’apprendimento.

Quest’ambiente viene ad essere tale, favorito dall’atteggiamento non critico del supervisore, che considera l’errore non come tale, ma come tentativo “non riuscito” di far bene da parte dell’allievo. Questo gli insegnerà, che qualsiasi situazione di “apparente caduta”, possa essere fonte di crescita interiore e di apertura verso i colleghi.
Inoltre, quest’esperienza lo accompagnerà soprattutto nel suo lavoro, dove “apparenti cadute” del paziente, parlo di depressioni, regressioni e scoraggiamenti, possono essere vissute anche queste come tentativi di cambiamenti non riusciti.

In questa ottica, il terapeuta non viene sopraffatto dalla sensazione di impotenza di fronte alla sofferenza anche grave del paziente: egli acquisisce la fiducia che gli esseri umani possono sopportare problemi di qualsiasi dimensione e lavorare con successo per la loro risoluzione.
Per questo motivo fin dall’inizio, al di là dello spazio dovuto all’insegnamento, incoraggiamo il giovane analista a sviluppare un rapporto il più possibile genuino ed autentico col paziente e con se stesso, che tenga conto dell’interazione tra due personalità diverse tra loro, ma che intendono procedere su di un percorso comune.

L’ampiezza di questo tipo di approccio, la sua fluidità generalmente creano ansia nel giovane allievo, perché gli sembreranno mancare adeguati e ben definiti punti di riferimento teorici. Ma i confini della psiche umana, come ben sapevano gli antichi filosofi greci, per quanto lontano si possa andare, non potranno essere trovati e dunque chi vorrà occuparsi delle problematiche della psiche, deve essere preparato a navigare in acque profonde e mari aperti.

Per questa ragione, durante gli anni del training, verrà dato spazio all’incontro, non solo con differenti teorie e metodologie nel campo della psicoterapia, ma anche con altre discipline come la psicoantropologia simbolica e l’etnopsicologia: cercheremo cioè di avvicinarci il più possibile attraverso l’interdisciplinarità ad un modello di conoscenza olistica dell’uomo e del mondo in cui egli vive.

La nostra modalità di considerare l’analisi di gruppo è in sintonia con la teoria della Horney basata sullo sviluppo della persona, e non può essere separata dalla modalità propria della teoria della psicoanalisi diadica. Tali modalità potranno essere sperimentate, personalmente, dai terapeuti in formazione nel periodo del loro training.
Secondo la Horney, il concetto di cambiamento psichico passa attraverso la liberazione del vero sé dai legami compulsivi, che hanno la loro origine nelle esperienze interpersonali: solo così, le forze costruttive (liberate) possono essere riutilizzate per esprimere una solida autenticità.

In questa ottica, come non utilizzare la ricchezza dell’esperienze interpersonali che possono essere vissute nel gruppo?
Questo è stato ampliamente confermato dalla mia pratica analitica di gruppo, laddove questo apre uno spazio maggiore alla responsabilità mentale del soggetto.

Nel gruppo esiste una sorta di fusione di residui del vero sé di ogni membro e di conseguenza un rafforzamento di ognuno attraverso la potenzialità di tutti. Il gruppo è un’entità più grande dei singoli individui e della mera somma dei suoi componenti.

Il fatto che l’analista, accetti ogni membro del gruppo nella sua totalità, nelle sue emozioni, espressioni e comunicazioni sia positive che negative, crea un’atmosfera di accettazione che viene colta dal gruppo nel suo insieme. Questa attenzione, questa intuizione, che è in grado di dare sostegno, crea capacità analoghe di intuizione, comprensione e sostegno nei membri del gruppo stesso.
Capire l’individuo diventa la funzione del gruppo, che con i suoi interventi stimola l’individuo ad avere fiducia in se stesso e a porsi con più fiducia di fronte alla profondità della sua psiche, ampliando così la sua capacità di libere associazioni.

Ognuno nel processo di terapia (l’individuo, il gruppo, l’analista) è veramente attivo, malgrado la passività apparente a volte dell’uno a volte dell’altro. L’alto grado di tensione costruttiva, che il terapeuta cerca di mantenere, permette al gruppo di svolgere un’attività specifica (la stessa forza vitale, che la Horney attribuisce al processo di realizzazione del sé, è il mezzo attraverso il quale l’individuo riduce la sua angoscia di base, ricostruisce se stesso, la sua identità e, allo stesso tempo, nuovi rapporti umani).
La storia del gruppo è il risultato di contatti, scambi e nuove dinamiche, che nascono durante il processo gruppale. Il lavoro del terapeuta è complementare all’attività gruppale: egli deve sapere aspettare che la capacità di sviluppo autonomo venga da ogni membro, perché, in stretta interdipendenza con il suo proprio ambiente, si renda soggetto responsabile.

Nella nostra scuola sono stati istituiti corsi mirati in maniera precipua all’educazione delle capacità intuitive e allo sviluppo della capacità di sintesi.
L’allievo dovrà essere aiutato ad affinare le sue capacità percettive e a poter utilizzare la ricca messe di informazioni che queste possono fornirgli a proposito del paziente che gli sta di fronte. Sentiamo il bisogno di ripetere che il paziente, essendo una persona, è unico e singolare, proprio come unico e singolare è il terapeuta.
Man mano che il processo di formazione procede, l’allievo avrà sempre meno paura del suo compito di terapeuta e diventerà sempre più sicuro di se stesso e della sua capacità di trovare un suo originale metodo di rapporto terapeutico.

Nella misura in cui imparerà a sciogliere le proprie rigidità, ad essere più disponibile, aperto, ricettivo a se stesso, lo sarà naturalmente anche nei confronti dei suoi pazienti e la sua professione risulterà non più faticosa ed ansiogena, ma una estrinsecazione del suo stesso modo di rapportarsi al mondo e di viverne l’esperienza.
In una parola le teorie e le tecniche, non risulteranno qualcosa di esterno, ma saranno completamente risolte nell’essere stesso del terapeuta (cioè vengono “incarnate” nel terapeuta).