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Società di Psicoanalisi Interpersonale e GruppoAnalisi

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Testimonianze allievi

Discorso presentazione S.P.I.G.A. del 20/10/2012 di Giuseppina Lalia

Discorso presentazione S.P.I.G.A. del 20/10/2012

di Giuseppina Lalia

 

La prima volta che mi sono trovata davanti al primo paziente ho provato una forte emozione. Questa emozione, anche se maggiormente controllata e contenuta, è rimasta sostanzialmente la stessa anche oggi.

Quando sto per incontrare un paziente, sento che sta per avvenire qualcosa di importante. È come se fermassi, nella mia mente, l’attimo che precede l’entrata del paziente nella stanza. Dopodiché mi immergo con tutta la mia attenzione in quello che avviene. Un’attenzione che va sul contenuto di quello che la persona che ho davanti mi dice, ma al tempo stesso un’attenzione diversa, che vaga liberamente.

Sto imparando l’arte dell’attesa: non cerco attivamente il significato di quello che avviene in seduta, cerco invece dentro di me quella calma che mi permette di ascoltare e vedere, non solo con le orecchie e con gli occhi, ma con una sensibilità che ho cercato negli anni di recuperare e affinare. Quando sto in questa dimensione non cerco di capire attivamente e frettolosamente il messaggio profondo che il paziente mi sta comunicando, ma resto aperta e in attesa che le sensazioni si delineino più chiaramente fino a diventare pensiero ed eventualmente parola. Se ho saputo aspettare, qualcosa si rivela da sé.

Sto imparando la scarsa importanza delle parole in sé: per quanto siano uno strumento indispensabile per questo tipo di lavoro, come è indispensabile appropriarsi della tecnica, della teoria e della conoscenza, credo che quello che cura realmente sia altro. Un vero percorso formativo non è fatto di sole parole, così come non lo è la terapia. La ripetizione di formule o l’identificazione acritica con chi sa più di noi non permettono né un vero apprendimento da parte dell’allievo, né reali progressi da parte del paziente.

Mi viene in mente quando una mia paziente, parlando, fece un errore grammaticale e mi guardò con timore, più che imbarazzata. Io alzai solo le spalle, come per dire: “tanto ho capito lo stesso”. Per me era importante lei, lei come persona, e la parte istintiva di me le rispose subito con una comunicazione non verbale che la mia mente analitica avrebbe tardato a dare. Analiticamente ho pensato, poi, che la paziente è sempre stata iperdifesa, che ha sempre avuto paura di parlare, di comunicare, di farsi sentire perché è sempre stata attaccata nei punti deboli dalle figure importanti per lei; e ho capito che quel mio gesto non verbale era una comunicazione importante da inconscio a inconscio e la reazione che andavo avvertendo nella paziente era un rilassamento grato. Mi ha guardato con la coda dell’occhio e ha continuato a parlare come se non avesse dato peso alla mia reazione, ma il suo atteggiamento era visibilmente cambiato: quella piccola cosa, inapparente, quello scambio durato qualche secondo ha determinato un cambiamento reale in lei così come in me. Un cambiamento che – al di là della conoscenza, pur fondamentale, della teoria della Horney o di qualsiasi altra teoria – si basa su un incontro di esseri umani che entrano in contatto, che si capiscono e interagiscono con autenticità. Su questo nasce, a mio parere, la possibilità di un cambiamento e la possibilità di sentire la “Vita Vivente”, per usare un termine di Reich.

Sto imparando la serietà che deriva dall’assunzione di responsabilità e solo dopo si realizza la possibilità di vivere anche con una bella leggerezza. Sto imparando, per dirla con altre parole, a fidarmi di quello che sento, a lasciare che emerga alla coscienza fino a diventare pensabile. E l’elaborazione dei miei vissuti mi restituisce una maggiore conoscenza di me stessa e della situazione che in quel momento mi si presenta davanti.

Ricordo le parole del professor Morrone, che approssimativamente cito a memoria: “Non sono horneyano, ma ho preso dalla Horney quello che mi serviva per lavorare”. Questa scuola non insegna ad essere un horneyano, nel senso di andare in giro con una targa sulla fronte in cui c’è scritto “Horney”, ma a tirare fuori quelle che sono le potenzialità di ognuno di noi di essere terapeuti ad orientamento psicoanalitico.

Credo che tutti noi abbiamo una certa idea di come siamo, ma in ogni istante, se lo permettiamo, possiamo sentirci nuovi.

Facendo questo lavoro così straordinario, abbiamo la possibilità di vedere in faccia i nostri limiti e di superarli per recuperare una freschezza e una novità che può stupirci.

Ho imparato che l’incontro terapeutico è un’opera d’arte che si crea insieme all’altro.

Queste cose e molte altre le ho imparate frequentando questa scuola.

Il protagonista del libro “La chiave a stella” di Primo Levi, Faussone, è stato un operaio specializzato di una catena di montaggio. Lascia questo lavoro per realizzare il suo sogno, girare il mondo per contribuire a creare delle opere per lui importanti: montare gru, ponti sospesi, strutture metalliche. Faussone ama il suo lavoro. Riportiamo le sue parole mentre parla di sé:

<<perché sa, se io faccio questo mestiere di girare per tutti i cantieri, le fabbriche e i porti del mondo, non è mica per caso, è perché ho voluto. Tutti i ragazzi si sognano di andare nella giungla o nei deserti o in Malesia, e me lo sono sognato anch’io; solo che a me i sogni mi piace farli venire veri, se no rimangono come una malattia che uno se la porta appresso per tutta la vita>>

(Levi, 1991, p. 4).

 

Bibliografia

Levi P. (1991) “La chiave a stella”, Einaudi editore, Torino.